Convivere con il rischio? La scommessa dell’uso capitalistico del territorio.

Abbiamo intervistato un ingegnere idraulico che ha lavorato in Emilia e in Romagna. In questi territori, e non solo, ha sviluppato numerosi modelli idraulici di corsi d’acqua, progettato opere idrauliche ed infrastrutture, valutato fattori di rischio.

I: Davanti alla tragedia romagnola qual è stata la tua prima impressione?

R: Che sul rischio idraulico non c’è informazione. Vedere morire 15 persone sebbene l’allerta rossa fosse stata annunciata da una settimana vuol dire che c’è qualcosa che non funziona nella comunicazione verso la cittadinanza e che la cittadinanza non ha la percezione del rischio idraulico. Dobbiamo imparare a convivere col rischio idraulico. Come convivi col rischio terremoti. Sfortunatamente non possiamo annullare questi tipi di rischio. Dobbiamo lavorare sulla capacità di riduzione dei danni con opere e sulla consapevolezza. Non è possibile vedere auto che girano per andare al lavoro o persone anziane allettate che dormono al piano terra o al primo piano durante un’allerta rossa. Dobbiamo lavorare sulla consapevolezza e sui sistemi, esistenti da decenni, di messaggistica e comunicazione anche diretta.

I: è così veloce la piena?

R: sappiamo che i nostri torrenti emiliano-romagnoli ti lasciano poco tempo per intervenire. In un’ora, un’ora e mezzo la piena si trasferisce da monte verso valle. E’ come un’onda. Inoltre se c’è una rotta arginale hai davvero pochi minuti per capire che l’acqua sta arrivando. Non te ne accorgi.

I: ma come lavorate per ridurre i fattori di rischio?

R: I progetti e le analisi vengono dimensionati sulla base di modelli idraulici che si basano sul tempo di ritorno di un evento. Cioè il periodo in cui un evento con una determinata intensità si può verificare, quindi se diciamo tempo di ritorno 200 anni è un evento che può verificarsi una volta ogni 200 anni. E’ tutto basato sulla statistica definita su eventi passati. Quelle date condizioni però potrebbero verificarsi tre volte come zero nei 200 anni successivi.

I: ma il modello è basato solo sulla quantità di pioggia che cade su una determinata superficie territoriale in un determinato tempo?

R: No il modello è molto complesso e ha numerose variabili. Come ti dicevo è basato su dati pluviometrici storici, cioè la quantità di acqua (per esempio in questo evento sono caduti 300 mm di pioggia) e sulle caratteristiche dell’evento meteorologico. Tantissimo se pensiamo che è quanto caduto nei sei mesi precedenti. Oggi è uscito un bell’articolo sul Corriere 1della Sera che ricorda che nel 2018 con la tempesta Vaia in Veneto ne sono caduti 700 mm di pioggia in poche ore e non ha avuto le stesse conseguenze idrauliche. Questo perché hanno fatto le opere mentre in Romagna no? Non solo. Perché ciò che incide sul modello è come questa quantità di pioggia affluisce ai recettori, per esempio un torrente, che poi casomai passa ad un fiume (per esempio da noi il Po) e poi in mare.

E in questo devi considerare nel modello molteplici fattori. Quello che è successo in Romagna nei giorni scorsi è che quei 300 mm di pioggia sono caduti dopo che era già piovuto molto e quindi i terreni erano saturi. Questa quantità di acqua non poteva più essere assorbita dal terreno ed è defluita direttamente nei torrenti. Il problema dei tempi di ritorno è complesso, perché non solo dipende da quanto piove, ma anche dalle condizioni dei terreni e dallo stato vegetativo dei terreni e degli alvei. Un evento che avviene in maggio, quando la vegetazione è più rigogliosa, implica più scabrezza nei fiumi. E’ una situazione tra le più critiche perché ovviamente ne riduce la portata, l’acqua non riesce sostanzialmente a passare. Se la capacità di un alveo pulito è di 10, quello stesso alveo con la stessa sezione sporca potrebbe ridurre la capacità di portata a 6. Si aggiunge un ulteriore fattore che è il trasporto di materiale solido, tronchi, vegetazione, materiale vario. Rischiano di bloccarsi sui piloni dei ponti. Creare un effetto tappo e quando il ponte crolla, sostanzialmente si forma un’onda. Una situazione molto pericolosa.

E poi i tempi. Cioè quali sono le possibilità di gestione dei tempi di questi deflussi di acque nei recettori, per non metterli in crisi. Quando abbiamo studiato l’esondazione del Baganza avvenuta nel 2014, che ha allagato parte del Parmense, per esempio, abbiamo visto che malauguratamente la precipitazione si è spostata seguendo il corso del fiume. Ha “piovuto male”. La piena di monte è stata incrementata con le precipitazioni verso valle. I fenomeni si sono sommati diventando critici. Con casse di espansione parte di questi effetti sarebbero stati mitigati.

D’altra parte, se ragioniamo sui tempi, non dobbiamo neanche trascurare il fatto che noi (Emilia) abbiamo il Po come fiume ricettore finale. Utilizzando le casse di espansione tu trattieni l’acqua per un determinato periodo, poi la devi rilasciare. E’ importante che questo delta di tempo sia “utile”. Mi spiego. Una piena di un torrente sarebbe passata in un’ora o due, scorre, va in Po poi in mare. Se ne dirotti le acque in una cassa di espansione, ne rilasci le acque in due, tre giorni. Il rischio è che nel frattempo piova in Piemonte e ci si trovi a sommare alla piena del Po gli apporti di acque che tu non riesci più a trattenere. Aumenta il rischio di tutti i territori vicino al Po. Metti in salvezza Parma, Reggio, tutto quello che ricade a monte, ma chi sta a valle avrà dei problemi. La pianura è difesa dai tratti di territorio arginati.

In Romagna molti dei bacini necessari non sono stati realizzati o resi completamente funzionali. Non si può dire che se ci fossero state le casse espansione, non ci sarebbero stati degli allagamenti. Credo ci sarebbero comunque stati, in forma minore, riducendo così danni e pericolo. La Romagna è drammaticamente in ritardo. I finanziamenti negli ultimi anni sono stati intercettati dall’Emilia, pochi dalla Romagna.

I: quindi non esistono casse di espansione in Romagna?

R: non conosco bene quelle aree nello specifico, ma da quanto ne so in Romagna esistono molti bacini scavati ma non entrati in funzione, perché mancano le opere di presa o di scarico dei bacini.

I: quindi opere sono state avviate ma non sono mai diventate operative?

R: Si. Spesso sono mancati i finanziamenti e la volontà di completarle. In passato questo era un tema trascurato. Poi per tantissimi anni non ci sono stati soldi. La competenza è dell’autorità di bacino (un’autorità interregionale) ma al contempo la politica regionale deve essere capace di intercettare soldi per il territorio.

Il problema spesso è la programmazione. Partono finanziamenti statali o europei (come il PNRR ora) e ti lasciano un brevissimo lasso di tempo per presentare e autorizzare progetti. Spesso si tratta di un sacco di soldi. Ma sono a scadenza, devi utilizzarli entro una determinata data o li perdi. Quindi il vero problema è che per me non c’è mai stata programmazione sulle opere di ingegneria idraulica e soprattutto sulle autorizzazioni. Cioè tu dovresti avere oggi i progetti già elaborati e anche già autorizzati che farai quando si presenterà il finanziamento di turno, tra 4 anni? 5 anni? 10 anni?
I progetti autorizzati non ci sono. Anche perché concludere l’autorizzazione è spesso complesso, oneroso e con lunghi tempi. Molti attori, poco coordinamento, tempi non definibili. Noi stiamo facendo ora i progetti per il PNRR, molti di questi non saranno autorizzati nei tempi per riuscire a prendere finanziamenti.

In Veneto sono stati molto più bravi che in Romagna o in Emilia a intercettare finanziamenti e completare le opere.

In verità mi fa rabbia pensare che quello che abbiamo speso in 5 condomini, o in 20 villette unifamiliari, con il superbonus, probabilmente bastava per pagare l’opera di presa necessaria per completare una cassa di espansione che ora non funziona. Scelte. Scelte scellerate.

I: Ci sono altre criticità nella realizzazione di casse di espansione?

R: Dal mio punto di vista un aspetto molto critico è la gestione delle terre e rocce da scavo. Cioè trovare una destinazione ai milioni di metri cubi di terreno che devi scavare e portare altrove per realizzare i bacini. Questo è un problema sia autorizzativo, poiché in fase di autorizzazione devi giustamente dichiarare dove e come verranno impiegati i terreni, sia tecnico ed economico poiché la gestione del cantiere connessa a questi enormi volumi di terra non è semplice. In passato questi terreni di riporto sono stati utilizzati principalmente quali fondi stradali per le infrastrutture, in particolare nuove autostrade. Da sempre le opere idrauliche sono connesse a opere infrastrutturali. Questa criticità emerge anche poiché i progetti in voga negli ultimi decenni sono quasi sempre di grandi casse di espansione con volumi di scavo molto importanti di terreno da impiegare altrove.

I: C’è chi dice che uno dei fattori sia il consumo di suolo degli ultimi anni. E della necessità di desigillare i terreni.

R: Desigillare?

I: Si. Nelle città le superfici impermeabili (per esempio le asfaltate e le costruite) impediscono al terreno di assorbire acqua piovana. E quindi si ritiene che sostituire queste superfici con superfici permeabili, drenanti e non costruire ulteriormente sia alla base della soluzione.

R: mah. In Emilia Romagna è applicata da anni l’invarianza idraulica. Cioè se costruisci o impermeabilizzi devi garantire con un bacino di laminazione locale o opportune opere che le portate di deflusso meteorico scaricato nel recettore non siano maggiori di quelle precedenti l’opera. Cioè almeno a saldo zero. Il “consumo di suolo” avvenuto negli ultimi 10, 15 anni non è il responsabile di quanto avvenuto in Romagna. Certo, impermeabilizzare è un problema. Però il grosso dell’acqua che provoca l’allagamento arriva da monte. A Lugo di Romagna, a Forlì, ecc non sono le nuove aree impermeabili ad aver creato il problema. La pioggia è caduta in montagna, su un terreno saturo. Un terreno saturo è come un terreno asfaltato. Quindi possiamo parlare delle implicazioni di due o tre piazzali, di centri commerciali, che si sono fatti il loro sistema di laminazione. Ma queste estensioni non sono paragonabili con le estensioni dei bacini imbriferi in montagna.

I: Ma quindi sulla questione idraulica impattano anche i metodi colturali della montagna? La manutenzione dei campi e dei sistemi di corrivazione delle acque superficiali?

R: Credo che quello incida più sul tema del dissesto, delle frane. Se un campo fosse ben mantenuto, forse avrebbe trattenuto più acqua. Poi, alla fine, avrebbe comunque raggiunto la saturazione. Come è avvenuto a causa delle piogge prolungate. Però sarebbero state innescate meno frane, con meno apporto di materiale solido nei fiumi. Perché il problema è che le frane finiscono nei fiumi e questo incide, come dicevamo prima, sulla capacità di portata dei torrenti e dei fiumi.

I: per tornare a possibili soluzioni. Puoi spiegarci meglio la gestione delle alluvioni in pianura?

R: si. Oltre a quanto già accennato prima è importante aggiungere due fattori determinanti in pianura. Parlavamo dei tratti arginati. La manutenzione e la progettazione degli argini è fondamentale per la pianura. Da una parte la manutenzione e la verifica degli argini. La rottura di un argine ti lascia pochissimo tempo per intervenire. L’altro è avere arginature più larghe, creando di fatto delle golene. Però i modelli che abbiamo sviluppato dimostrano la minor efficacia delle golene rispetto alle casse di espansione. Le golene riescono a smorzare l’effetto del picco di piena, però non lo eliminano.

Dagli studi è emerso come gli strumenti più efficaci in pianura rimangano le casse di espansione. Ma noi continuiamo a pensare alla singola opera che risolva il problema, il grande intervento. Con tutte le difficoltà che ho presentato prima, di carattere amministrativo, autorizzativo, di gestione degli impatti ecc…

Credo che la migliore risposta sia creare interventi diffusi lungo l’intera asta del torrente o del fiume, sfruttando aree golenali, terrazzi di fiumi e creando nuove aree di espansione anche naturali. Questo semplificherebbe gli iter autorizzativi e distribuirebbe responsabilità su tutti i territori interessati. L’obbiettivo è sempre avere la capacità di scegliere se fermare e ridurre l’ondata di piena, e così ridurre danni, rischio e pericolo per l’incolumità delle persone.

I: Quindi, per concludere?

R: Maggiore consapevolezza sulle implicazioni della convivenza con il rischio idraulico. Fare programmazione sulle opere e avere progetti autorizzati pronti ad intercettare i finanziamenti, migliorare la manutenzione del territorio ed infine non concentrarci su una singola opera ciclopica ma ragionare su casse di espansione diffuse e di dimensioni minori lungo le aste dei fiumi e dei torrenti.

A cura di Arianna

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